SALVATORE MICILLO. Signor Presidente, colleghi, la mozione odierna arriva al capolinea di un ciclo di atti parlamentari promossi dal nostro ingresso in Parlamento ad oggi, per far luce e al tempo stesso richiamare l’attenzione su un dramma, nemmeno tanto invisibile, rappresentato dallo sversamento illegale, permanente e continuativo di rifiuti di ogni tipo, ai quali viene dato fuoco. Questo avviene ogni giorno, ad ogni ora del giorno e della notte in un particolare territorio che mani senza scrupoli hanno notoriamente portato in tutto il mondo con il nome «Terra dei fuochi».
Con questa espressione si indica l’area che va dal litorale domizio-flegreo, l’agro aversano-atellano, l’agro acerrano-nolano e vesuviano, fino alla città di Napoli.
Con la nostra presenza abbiamo inteso portare in queste Aule i fumi dei roghi che divampano in territori sfregiati dalla mano degli uomini più interessati ai soldi che alla salute umana.
Questa è la nostra terra: qui siamo nati e qui vogliamo vivere. I roghi sono la soluzione più semplice per malfattori ed evasori, ma pure la più pericolosa e dannosa, che rimette in circolazione nell’aria i rifiuti bruciati sotto forma di letali particelle, che entrano nei polmoni e nel sangue, si depositano sulla pelle e restano nei capelli in modo nocivo e con conseguenze gravi sulla salute degli abitanti, donne e bambini, nascituri o anziani: l’inquinamento non fa distinzione, colpisce tutti.
Per non parlare della catena alimentare, ivi compresa l’agricoltura, gli allevamenti. È la morte dello Stato, il trionfo dell’illegalità: una condanna per gli abitanti, per l’economia, la terra, l’acqua e l’aria. Dalla Terra di lavoro alla Terra dei fuochi: inquinati, bruciati, rovinati sul piano economico. Questi impegni contenuti nella mozione, fate conto che non ve li richiede il MoVimento 5 Stelle, ma 4 milioni di persone. La gente attende una risposta forte dal Parlamento in merito alla questione: non la vuole fra tre mesi, ma adesso.
Alla compromessa situazione ambientale, alle patologie presenti, si unisce la mancanza di lavoro: quando si parla di quel territorio compreso tra le province di Napoli e Caserta, che i più ormai chiamano «Terra dei fuochi», si utilizza, purtroppo, una definizione molto riduttiva nei confronti della gravissima emergenza ambientale che da decenni colpisce gli abitanti di queste terre – un comprensorio che con circa 4 milioni di persone rappresenta una delle aree più densamente popolate –, che pagano spesso con la vita l’unica colpa di essere nati in una terra tanto meravigliosa quanto preda di un mostro a tre teste: malapolitica, camorra e imprenditoria deviata, che lunghi anni di assalti l’ha ridotta ad un ammasso di ceneri, veleni e morte, che quotidianamente minaccia una bellezza che nonostante questo si rifiuta di cedere il passo.
Negli anni successivi, con il continuo estendersi del numero di siti interessati dalla provata contaminazione da sostanze tossiche nocive (come diossine, PCB e metalli pesanti) ritrovate nelle varie matrici ambientali, quel triangolo è andato defilandosi fino ad assumere una forma dai contorni indefiniti, che sfiorano quasi per intero il territorio campano: un territorio che, proprio in queste ore, continua a mostrare le profonde ferite inferte da lunghissimi anni di abbandono e di degrado, sul quale ha proliferato a ritmi vertiginosi quel grande business del traffico e dello smaltimento illecito di rifiuti provenienti da ogni angolo d’Italia, che proietta costantemente la Campania in testa alle graduatorie dell’ecomafia.
Una condizione che, dopo gli ultimi tre anni, in cui questi fenomeni sono andati avanti in maniera intensiva e assolutamente incontrollata, coperti da un’opprimente coltre di silenzio e omertà, nei mesi recenti ha visto finalmente i riflettori di grandi media nazionali e internazionali: un dramma che più volte è stato paragonato a un vero e proprio genocidio. Ma la gente in questo territorio comincia ad essere stanca anche di questo, i morti e i vivi di queste terre non ci stanno a fare la parte dei fenomeni da baraccone. Qui la gente chiede di tornare a vivere nell’assoluta normalità la propria vita, come avviene in qualsiasi altra parte d’Italia.
Se questa richiesta potrebbe suonare strana a qualcuno che ancora non ha avuto modo di toccare con mano il disastro e si chiederà cosa sarà mai questa Terra dei fuochi, triangolo della morte o come volete voi, basta superare il Garigliano e raggiungere il famoso litorale Domizio: un’ampia fetta del territorio campano che parte dal litorale domizio-flegreo e raggiunge le pendici del Vesuvio, una piaga sanguinante. Basta fare un giro lungo le spiagge di Castelvolturno, che ha aggredito un paesaggio che oggi presenta il conto con abitazioni che stanno letteralmente disintegrando sotto l’azione congiunta dell’erosione e del cedimento delle fondazioni, prodotto da un fondo instabile a causa delle onde che, dopo aver divorato la spiaggia, terminano la loro corsa a ridosso delle case, scavando via la sabbia di sottofondo e riducendo in brandelli le murature.
Ma se gli edifici e le cementificazioni rappresentano il ramo tagliato su cui si reggeva l’equilibrio costiero, garantito dalla presenza della duna e della vegetazione che proteggevano l’entroterra, l’altro aspetto altrettanto devastante per l’economia del litorale, ma purtroppo meno evidente agli occhi dei passanti, è quello collegato ai cosiddetti laghetti artificiali sparsi tra i comuni di Castel Volturno e Villa Literno, quelli di cui ha parlato un noto camorrista, le cui deposizioni, solo qualche giorno fa, siamo riusciti a desecretare dopo 17 anni trascorsi nel buio di un cassetto e di un territorio che ha pagato le conseguenze.
Numerosi specchi d’acqua disseminati tra i campi coltivati poco oltre la fascia costiera, nati a seguito degli scavi con cui le imprese collegate ai clan camorristici reperivano materiale per confezionare il calcestruzzo, che ha dato linfa alle infrastrutture e alla mega-speculazione edilizia di stampo campano; scavi che dopo l’esaurimento della capacità di estrazione gli stessi clan hanno riutilizzato per seppellire decenni di sversamenti illeciti di rifiuti, che la calmata continuava, hanno creato una miscela micidiale di veleni che lentamente si è riversata nei campi circostanti, compromettendone seriamente la capacità e la qualità produttiva.
Un rischio che fino a poco più di un anno fa era rimasto racchiuso in quelli che a più riprese sono stati ritenuti nient’altro che vaneggiamenti di associazioni ambientaliste impegnate sul territorio, ma che da alcuni mesi ormai si sta rivelando tutt’altro che infondato. Da circa un anno, infatti, i media stanno raccontando la triste realtà dei numerosi ritrovamenti di sostanze altamente tossiche di provenienza industriale, interrate non solo a ridosso del litorale ma anche nelle campagne di Caivano, e di numerosi siti compresi tra le province di Napoli e Caserta, la cui presenza, in seguito a diverse indagini compiute anche dall’OMS, in collaborazione con l’ISS, è stata riscontrata sia in alcune colture che tradizionalmente campeggiano in questi territori, sia nei terreni stessi su cui le coltivazioni sono realizzate, sia nelle acque di diversi pozzi presenti nelle nostre zone.
E dire che queste verità erano scritte nero su bianco già nelle 260 pagine del cosiddetto «rapporto Balestri», la consulenza tecnica eseguita nel 2009 dal geologo Giovanni Balestri per conto della procura di Napoli sui terreni della cosiddetta «area vasta» di Giugliano, quella della RESIT, della Novambiente, di Taverna del re, quelle terre dove 70 dei nostri parlamentari lo scorso 5 luglio hanno potuto vedere e sentire cosa fosse il disastro, che volto avesse, lo hanno guardato in faccia come non mai.
Tuttavia, l’allarme, quello forte, quello scatenato dall’eco dirompente del flusso di notizie sui ritrovamenti nei campi di Caivano dei mesi scorsi ha prodotto l’unico effetto negativo che poteva, quello di indebolire la già provata economia di un territorio che annovera numerose eccellenza del made in Italy nel settore agroalimentare, un mercato che con i suoi tredici marchi DOP e le nove IGP registrate dall’Unione europea, tra i quali figurano prodotti come la mozzarella di bufala, la pesca bianca napoletana, le fragole, le straordinarie mele annurche, occupa vertici anche delle graduatorie internazionali dell’economia agricola del nostro Paese. Ci si renda conto, una volta per tutte, del fatto che i prodotti di questa terra arrivano su tutte le tavole degli italiani e del mondo. Questo non lascia spazio a egoismi territoriali o a indifferenza di parte degli italiani verso questa realtà.
Se, quindi, è nazionale il problema che spinge il consumatore a chiedere la provenienza del prodotto, la tracciabilità di certe specialità acquistate fuori dalla Campania o anche in Campania o nello stesso territorio della Terra dei fuochi, allora nazionale deve essere l’impegno nel far comprendere che non tutta la Campania è la Terra dei fuochi, che solo una parte contenuta dei terreni è rimasta vittima dell’avvelenamento e dei roghi tossici che, purtroppo, continuano ancora oggi.
È di questa mattina la notizia che un noto marchio di pomodoro conserviero ha promosso una campagna pubblicitaria che è sintesi di un emblema di quali conseguenze psicologiche sta generando il problema della Terra del fuochi. Nelle note del manifesto si legge che detto marchio utilizza solo pomodori freschi coltivati nel cuore della pianura padana. Sulla pagina facebook l’azienda precisa: i recenti scandali di carattere etico-ambientale che coinvolgono produttori e operatori del mondo dell’industria conserviera stanno muovendo l’opinione pubblica generando disorientamento nei consumatori verso questa categoria merceologica.
Il Consorzio Casalasco del Pomodoro e il brand Pomì sono da sempre contrari e totalmente estranei a pratiche simili, privilegiando una comunicazione chiara e diretta con il consumatore. Per questo motivo l’azienda comunicherà sui principali quotidiani nazionali e locali, ribadendo i suoi valori e la sua posizione in questa vicenda.
Non si può – e non si deve – riversare tutto nel calderone del sospetto, sospetto che poi, a pensarci bene, cozza fortemente contro i diversi tentativi di esemplificazione, azzardati da fior di Ministri di questo e del precedente Governo che, a più riprese, hanno cercato di addurre ai cattivi stili di vita, o all’eccesso di fumo, quello delle sigarette, il drammatico stato di salute di una popolazione che, da oltre dieci anni, vede la percentuale delle persone che si ammalano di tumore, spesso in giovani e giovanissima età, crescere a ritmi vertiginosi. Più volte, in questo modo, si è cercato di girare intorno alla ricerca di quel famigerato nesso di causalità tra inquinamento da rifiuti ed effetti sulla salute, che se, da un lato, viene ignorato per la mancanza di volontà di cercarlo, dall’altro, potrebbe dare molte risposte ai tanti cittadini che, giorno dopo giorno, rifiutano l’idea che la sovrapposizione delle due gravi emergenze – ambientale e sanitaria – che affliggono questo territorio non siano solo il frutto della coincidenza. Un rifiuto che li spinge a chiedere nient’altro che l’applicazione di un principio molto semplice, come quello di massima precauzione, affinché si accerti questo collegamento e si dia, una volte per tutte, giustizia a un territorio ormai terrorizzato anche da un banale colpo di tosse. Troppi genitori vivono nell’ansia che un raffreddore di un proprio piccolo possa celare patologie ben più gravi.
Da qui, parte lo slancio a cui è chiamata oggi la politica. Lo sforzo che la terra dei fuochi e tutta la Campania oggi ci chiede è quello di fronteggiare il deragliamento totale di un’economia che non può vedere compromessa la parte sana di una produzione agricola di eccellenza a causa di quella minata dal forte effetto dell’inquinamento, come un noto programma tv ha portato alla ribalta di recente.
Da qui, la grande svolta di avviare sin da subito il monitoraggio dei flussi di rifiuti industriali verso la Campania attraverso l’attivazione del SISTRI, di predisporre misure necessarie ad arginare realmente il fenomeno degli sversamenti dei roghi che ogni giorno appestano l’aria, di effettuare un monitoraggio di tutto il territorio, individuando i suoli non idonei alla produzione del cibo, di realizzare la tutela e la messa in sicurezza dei terreni che in questo marasma riescono ancora a godere di buona salute, di mettere a punto forme di aiuto economico per chi dovesse essere costretto a non produrre più sui propri campi, di recuperare i suoli inquinati e le falde con ogni tecnica che la scienza già oggi mette a disposizione in termini di bonifica, spingere affinché si possano utilizzare i fondi confiscati alla camorra, restituendo in questo modo il maltolto al territorio e, insomma, di fare in modo che quel lembo di terra compresa tra il vulcano di Roccamonfina, il Vesuvio e i Campi flegrei che, nonostante tutto resta la più fertile area del pianeta, ritorni ad essere la Campania felix (Applausi dei deputati del gruppo MoVimento 5 Stelle).
L’intervento integrale svolto alle 14 circa di lunedì 4 novembre 2013